Quella che segue è la relazione di Gabriele Iuvinale nella conferenza stampa che si è svolta ieri (30 maggio) nella Sala Caduti di Nassirya del Senato della Repubblica di presentazione del libro "La Cina di Xi Jinping - Verso un nuovo ordine mondiale sinocentrico?"
L’obiettivo principale della Cina di Xi Jinping è l’egemonia universale, ovvero fare di Pechino la prima potenza mondiale negli affari ed in ambito militare. Dominare non solo il commercio internazionale (ed un giorno, la finanza), i flussi di risorse, ma anche le terre contese come l’Artico, lo spazio e le istituzioni internazionali. Il Segretario generale del Partito Comunista Cinese Xi Jinping ha anche segnalato la sua ambizione di trasformare l'Esercito Popolare di Liberazione (la PLA), cioè il braccio armato del Partito comunista cinese, in una forza militare globale in grado di operare sia all’interno che al di fuori della regione indo-pacifica. Addirittura, il suo ambizioso fine è quello di completare la trasformazione di questo esercito in forza di livello mondiale entro il 2049, nel 100° anniversario della fondazione della Repubblica Popolare di Cina.
La presenza economica e politica di Pechino è ormai avvertita in ogni angolo del mondo.
Per rendere gli Stati più dipendenti e disposti ad “un nuovo ordine mondiale autoritario con caratteristiche cinesi”, la Cina utilizza ogni arma a sua disposizione, come la cooptazione e la coercizione economica, l’influenza malevola, il controllo sulle catene di approvvigionamento globali, lo spionaggio civile e militare, la guerra elettronica, la minaccia militare, il furto e il trasferimento forzoso di tecnologia, la diplomazia commerciale e militare, l'espansionismo territoriale, il colonialismo digitale, la partecipazione alle istituzioni internazionali per modificarle dall’interno con il fine di riscrivere le regole internazionali in una logica autoritaria.
Possiamo definire la Cina attuale un power trader, come lo fu la Germania nei confronti dei Paesi dell’Europa orientale tra la fine del XIX secolo e la prima metà del XX. La politica di Pechino infatti è quella di intrappolare i Paesi più piccoli e deboli in modo da renderli politicamente dipendenti e malleabili.
Per raggiungere questi obiettivi è stata usata la Belt and Road (BRI), voluta principalmente da Xi Jinping per creare un nuovo ordine politico e commerciale globale incentrato sulla Cina, con il finanziamento e la costruzione di infrastrutture che collegano il mondo con Pechino. Lanciata nel 2013 inizialmente in Eurasia e nella regione indopacifica, la BRI si è successivamente espansa attraverso corridoi in tutti i continenti. Ad essa si associa la Digital Silk Road che favorisce i mercati di esportazione per le aziende tecnologiche cinesi e l’adozione di standard tecnici e norme di governance nazionali a livello globale.
Attualmente anche 15 Paesi membri dell'UE hanno aderito alla BRI: tra di essi c'è l'Italia.
La BRI contribuisce al rafforzamento del potere politico, strategico e soprattutto militare della Cina all'estero, violando la sovranità dello Stato ospitante.
Anche la strategia cinese della fusione civile-militare – che impone che requisiti militari debbano guidare la costruzione di infrastrutture – ha importanti implicazioni per tali progetti all’estero e negli investimenti nell’ambito BRI per sostenere la potenza militare delle Forze armate cinesi.
La BRI è emersa come il concetto organizzativo più evidente dietro l’espansione della presenza delle Forze armate cinesi. Nel gennaio 2019, Xi Jinping in persona ha chiesto alla Cina di costruire un “sistema di garanzie di sicurezza” per la BRI.
Per supportare la proiezione di forza all’estero, Pechino ha elaborato una strategia militare che richiede alle forze armate di routinizzare le attività militari oltre confine, incoraggiando l’uso degli investimenti BRI, specialmente nei porti, negli aeroporti e nelle ferrovie.
La protezione degli interessi economici associati alla BRI potrebbe richiedere ulteriori dispiegamenti delle forze armate cinesi all’estero, anche se nel frattempo Pechino, per colmare le proprie lacune, potrebbe fare affidamento sia su entità di sicurezza private sia su quelle della nazione ospitante.
Le società cinesi all’estero, inoltre, stanno acquisendo maggiori servizi di sicurezza forniti da entità private. Almeno 20 di esse, spesso composte da ex militari di Pechino, operano all’estero e impiegano 3.200 addetti alla sicurezza in Paesi come Iraq, Pakistan e Sudan.
Considerata, inoltre, la legislazione cinese, che consente al Partito Comunista di esercitare un significativo controllo sulle imprese ai fini della sicurezza nazionale, è probabile che Pechino utilizzi queste forze come strumento di politica nazionale in tempo di pace o durante una crisi.
Negli ultimi dieci anni, dunque, in parte anche attraverso la BRI, gli investimenti di Pechino nei porti commerciali d’oltremare sono aumentati notevolmente, il che ha sollevato preoccupazioni sul fatto che la Cina potesse convertire queste partecipazioni economiche in basi militari o altri avamposti strategici.
Nel 2019, imprese di Stato cinesi avevano una partecipazione societaria o un contratto di locazione operativo in circa 70 porti al di fuori della Cina; nel 2022 si ritiene che tale numero sia superiore a 100.
I dubbi sulle reali intenzioni della Cina sono cresciuti quando Pechino nel 2017 ha convertito il debito residuo in un contratto di locazione di 99 anni per il porto di Hambantota, nello Sri Lanka.
Questi investimenti aumentano la presenza militare di Pechino all'estero, rimodellando l’ambiente operativo strategico a favore della Cina, spesso a spese del Paese destinatario.
I porti in cui le aziende cinesi investono possono avere anche funzioni militari a duplice uso. La Legge sui trasporti per la difesa nazionale della Repubblica popolare cinese del 2017, infatti, prevede di “incorporare i militari nei civili” il che significa che i porti commerciali potrebbero essere utilizzati dal personale militare se Pechino decidesse di farlo.
Le capacità di spedizione cinesi, i potenziali siti di base all’estero e gli obiettivi strategici suggeriscono, inoltre, che nel 2030 la Cina farà affidamento principalmente sul supporto logistico militare d’oltremare per estendere la propria potenza a livello globale. Ad esempio utilizzando le strutture commerciali nell'Oceano Indiano, del Mar Rosso e in Africa.
Articolata per la prima volta nel 2004, la teoria “String of Pearls” sostiene che le infrastrutture portuali commerciali possono servire da copertura per depositi di munizioni, supportando anche le operazioni di combattimento. I legami commerciali cinesi con i Paesi ospitanti possono tradursi in accordi segreti per consentire alla Marina militare cinese l’accesso alle strutture in caso di conflitto armato.
Gli investimenti cinesi in strutture portuali commerciali, in particolare nell’ambito della BRI, potranno anche servire per il supporto di rifornimento delle attività della Marina militare cinese; oltre all’attuale base di supporto logistico già presente a Gibuti, nel Corno d’Africa,sarà soprattutto dopo il 2030 che la Cina cercherà di creare basi militari più dedicate.
Pechino ha raggiunto accordi che prevedono l’impiego della Marina militare nei porti commerciali in cui le imprese cinesi non hanno partecipazioni, come il porto di Salalah in Oman, per una serie di funzioni di supporto alle operazioni militari, tra cui il rifornimento di carburante e le chiamate di sicurezza.
Per la creazione di nuove basi militari estere, la Cina, dunque, non farà ricorso ad accordi formali ma si avvarrà di una rete di strutture commerciali senza alcun patto dove si dichiari espressamente l'uso militare.
La finalizzazione di tali accordi è garantita dal fatto che i principali operatori portuali del mondo sono imprese statali cinesi, quindi direttamente controllate dal Partito Comunista Cinese.
La crescita della presenza marittima delle forze armate cinesi all’estero si fonda anche su un modello di strategia definito “punto di forza strategico”. I porti con investimenti cinesi o controllati dalla Cina, che vanno da quelli commerciali in cui le società statali cinesi detengono una partecipazione di controllo a basi militari a titolo definitivo, come quella di Gibuti, si sosterrebbero a vicenda, facilitando l’espansione delle forze militari cinesi all’estero.
Questi punti di forza strategici sposteranno le forze armate cinesi verso il Pacifico e l’oceano Indiano con basi operative avanzate per sostenere operazioni militari e per esercitare un’influenza nelle regioni circostanti.
La base navale a Gibuti e i porti nelle isole artificiali che Pechino ha costruito nel Mar Cinese Meridionale sono già punti di forza strategici e parte di uno sforzo per sviluppare un “sistema di difesa marittimo di ampia area”.
La Cina gestisce anche diversi porti commerciali nel Mediterraneo e in altre parti del mondo. Al centro di molti progetti portuali cinesi d’oltremare c’è la Via della Seta Marittima. Lanciata nel 2013, essa costituisce la componente via mare della più ampia Belt and Road.
Pechino, dunque, domina già in parte l’arena marittima globale e la gestione dei porti di rilevanza mondiale. Nei 50 porti più grandi al mondo, soprattutto in Europa, ci sono investimenti cinesi: si pensi a Long Beach in California, Kaohsiung nel sudovest di Taiwan, Euromax a Rotterdam, Anversa in Belgio, Amburgo in Germania, Pireo in Grecia, Haifa in Israele e Vado Ligure in Italia.
Attualmente le aziende cinesi controllano il 10% delle spedizioni europee. Sono coinvolte nei porti europei la COSCO, la China Merchants Port Holdings Company, che è il sesto operatore di terminal più grande del mondo, e Hutchison Port Holdings Limited (Hutchison), un gruppo privato di Hong Kong, che è l’operatore numero due al mondo. Di questi, COSCO è l’attore più rilevante: è anche l’unico vettore marittimo ed unica entità di proprietà dello Stato cinese con quote di controllo nei terminal europei.
Nella regione del Mediterraneo, COSCO ha molti punti di rifornimento che forniscono servizi giornalieri per le navi civili. Ma anche le navi da guerra cinesi possono entrare nei porti del Mediterraneo per i rifornimenti.
A livello globale, la stragrande maggioranza dei progetti portuali è legata a due soli operatori statali cinesi: la China Merchants Group e la Cosco Group. Circa 55 terminal in tutto il mondo beneficiano dell’investimento della Cosco.
COSCO, lo ricordiamo, è un gigantesco conglomerato statale che ha oltre 53 terminal per container, con relativi 197 ormeggi in 37 porti di tutto il mondo ed è attivamente alla ricerca di nuovi terminal per l’espansione. China COSCO Shipping, invece, gestisce oltre 360 navi portacontainer e costituisce la terza flotta container più grande al mondo.
E' importante sottolineare anche come gli Stati Uniti nel 2020 abbiano sanzionato cinque società cinesi legate alla China Communications Construction, per il suo presunto coinvolgimento nell’attività di militarizzazione del Mar Cinese Meridionale.
Pechino, inoltre, è profondamente coinvolta nel funzionamento, nella costruzione e nel finanziamento delle infrastrutture portuali anche in Paesi dell’America Latina e dei Caraibi (LAC), impegnata in diverse dozzine di accordi per costruire o espandere porti in acque profonde nella regione che potrebbero essere convertiti ad uso militare.
Anche le infrastrutture portuali commerciali allestite da società cinesi, dunque, possono essere impiegate per la raccolta di informazioni riservate.
In particolare, ci sono seri rischi derivanti dall’uso diffuso della piattaforma integrata per la trasmissione dei dati logistici denominata LOGINK.
LOGINK offre agli utenti uno sportello unico per la gestione dei dati logistici, il monitoraggio delle spedizioni e le esigenze di scambio di informazioni tra imprese e tra queste e il Governo. Consente agli utenti di comunicare e scambiare tra loro documenti e dati, nonché di cercare informazioni come l’ubicazione del carico o le quotazioni dei prezzi dei vettori merci.
Pechino sta spingendo forte per una sua implementazione globale. Incoraggia i gestori dei porti, i vettori di merci, gli spedizionieri, i Paesi ed altre entità ad adottarla gratuitamente. Tale piattaforma consente anche l’accesso ai dati da parte di terzi, come ad esempio ai servizi di informazione che offrono analisi sulla catena di approvvigionamento.
Il controllo di LOGINK da parte del Governo, dunque, fornisce al Partito Comunista cinese un potenziale accesso a tutti i dati raccolti e archiviati sulla piattaforma. Questi dati consentirebbero al Governo di Pechino di ottenere notizie dettagliate sulle spedizioni, sulle valutazioni del carico attraverso i moduli di sdoganamento ed informazioni sulla destinazione e sul percorso.
Sponsorizzata e supportata dallo Stato cinese, la piattaforma ha infatti accordi di cooperazione con almeno 24 porti, porti franchi ed operatori portuali al di fuori della Cina, di cui dodici in Asia, nove in Europa e tre in Medio Oriente. Attualmente LOGINK è presente anche in Italia nei porti di La Spezia e Marina di Carrara attraverso una partnership strategica con l’International Port Community Systems Association (IPCSA). L’integrazione con i magazzini globali Cainiao, inoltre, ha reso possibile l’utilizzo della piattaforma cinese nel deposito romano del braccio logistico di Alibaba.
Un accenno, infine alla terza e ultima fase della BRI che consiste nella difesa militare degli investimenti e delle rotte commerciali cinesi da potenziali minacce. Accanto alle Forze armate di Pechino, che operano da retroguardia, la Cina ha già in loco diverse Società di Sicurezza Private (PSC) pronte ad intervenire. Da 20 a 40 di queste sono cinesi ed operano all’estero in circa 40 Paesi. Diverse sono coinvolte nei progetti della Belt and Road e più di 7.000 sono gestite a livello nazionale.
C'è molto materiale su cui riflettere.
Grazie a tutti.
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